sabato 5 novembre 2011

Si definisce "buco nero" una regione di spazio da cui nulla, nemmeno la luce, può sfuggire

Buchi: nei denti, nella memoria, vicino ai ganci del reggiseno, nella volontà, sul polso della camicia, nella cognizione, sull'orlo dei pataloni, tra le parole, nelle scarpe.
Lacune incolmabili nella conoscienza di cose di mia competenza.
Buchi che comportano mille difficoltà, dai quali entra aria, acqua; buchi da rammendare, da rattoppare, sia che si tratti di usura dei capi d'abbigliamento (o della lavatrice), sia che si tratti di dislessia.
Ci vuole un filo resistente e un punto invisibile. Ci vuole una colla forte ma leggera. Ci vuole cura, ma il buco, anche se richiuso, resta dov'è.
Io che le parole scritte le ho sempre trovate, anche quando c'era ben poco da dire, non riesco a capacitarmi di come le parole possano rappresentare un ostacolo tanto grande, un fardello. Io che non so attaccare un bottone, non posso fare suture precisissime, ma so usare la colla, e anche se di solito mi rimangono le dita appiccicate, vorrei correre il rischio utopico. Vorrei.
IERI, a casa di Mary, facevamo colazione con pancake allo sciroppo d'acero e caffé americano, dopo aver dormito tra lenzuola confezionate in fabbrica (le mie erano cucite a mano), e giocato con barbie originali e figurine che se le grattavi sprigionavano un odore dolcemente artificiale.
Era bello!
Mangiavo a casa della nonna materna: pasta e patate a pranzo, panino col prosciutto a cena. Per farmi mangiare volentieri lei mi diceva che nella pasta aveva messo aromi magici, e che il panino era speciale e le era costato un milione!
Mangiavo dai nonni paterni, degli intingoli proteinici schifosi che cucinavo io per loro: a loro piacevano :)
Mangiavo ovunque, tranne che a casa mia dove si disperavano tutti per la mia mancanza di appetito.
OGGI: parecchi buchi nella parentela. Tagli nella vita, buchi nella ragione. Buchi nelle ragioni, nei jeans anni '80.

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