martedì 23 ottobre 2018

Ti conoscevo appena, non so nemmeno se preferivi che ti chiamassero Francesco o Giovanni. Sapevo pochissimo di te: che eri romano, che le tue origini erano siracusane, che avevi ottenuto un visto per qualità straordinarie.
La prima e l’ultima volta che ti ho sentito parlare me le ricordo benissimo. La prima volta hai detto: “che cazzate!” all’orientation di due anni fa, e sono rimasta sorpresa perché non sapevo ci fosse un nuovo professore italiano in dipartimento. Così italiano da trovare insopportabilmente inutile il Conflict Management Workshop che ci stavamo sorbendo, dico. L’ultima volta invece hai detto che insegnare ITA 101 qui era un’esperienza interessante, che quel giorno avevi avuto “l’osservazione” e quindi eri rimasto dentro i ranghi. Sembravi contento, hai detto che in fondo ti piaceva... ti piaceva far cogliere agli studenti le differenti sfumature semantiche del lessico inglese e italiano. Avevi menzionato la parola “dark” dicendo che era molto più carica della parola “buio”. E poi hai detto che sarebbe stato bello organizzarci per una pizza tra italiani...
Da stamattina non faccio altro che pensare a te e, nonostante la tragedia, mi sembra un po' eccessivo. Poi alle 2:30 ho saputo anche che avevi una famiglia, e adesso non riesco a smettere di pensare a loro e al loro dramma. Mi spiace davvero tanto.

martedì 16 ottobre 2018

Whose "Drive" Is the Italian Drive?


Ieri sera Fareed Zakaria, illuminato intellettuale americano di origini indiane, giornalista e autore, al suo talk tenuto all'Università di Miami dal titolo "Is the American Dream out of Reach?" ha paragonato l'Italia alla Florida per il suo altissimo tasso di popolazione anziana. Ha anche scherzato facendo i dovuti distinguo e specificando che non stava affatto mettendo sullo stesso piano il valore estetico, ma soltanto le affinità di luoghi che assomigliano a un'enorme casa di riposo. Poi ha anche parlato di "spinta", "impulso", che sono spesso prerogative dei giovani, specie se questi hanno "bisogno": di lavoro, di rivalsa, di dimostrare che possono farcela, di mangiare, di integrarsi... Di solito questa spinta diminuisce di generazione in generazione, perché, per esempio, i genitori che hanno sentito l'urgenza di emigrare hanno fatto di tutto per garantire ai propri figli una vita più agiata, contribuendo alla diminuzione delle cause del loro impulso. Lo stesso impulso che è stato (ed è) il motore di intere società, quella americana in primis. La spinta che si sente verso il miglioramento è la forza motrice che fa progredire un paese, di origine o di adozione che sia. Dovremmo iniziare a chiederci chi ne è davvero provvisto prima di puntare il dito sul responsabile sbagliato (il più ovvio, il più comodo) del nostro affossamento...

sabato 22 settembre 2018

Sono tornato (2018)

Sono tornato (di Luca Miniero) si apre in una Roma multiculturale, fatta di bambini di tutti i colori che parlano romano. Si fa subito un poco di retorica scontata sullo ius soli con la frase "qui siamo tutti italiani" pronunciata appunto da questa prole senza diritti. Poco lontano si sta consumando una tragedia, ovvero, il ritorno (la resurrezione?) di Benito Mussolini di persona personalmente, esattamente come l'avevamo lasciato. All'inizio il duce è confuso, non capisce che sono trascorsi decenni dall'ultima volta in cui è stato vivo, e non capisce la presenza a Roma di tutti quegli "abissini" e "musi gialli". Finché davanti a un'edicola, di fronte alla testata giornalistica che annuncia ottime notizie in favore dei matrimoni gay, sviene. Da lì è un'escalation in cui Mussolini sfodera tutta la sua sagacia mediatica ritrovandosi in una contemporaneità che amplifica esponenzialmente la sua propaganda, abitata da una ciurma di imbecilli (purtroppo questi non hanno nulla a che vedere con la finzione) che lo anelano. I suoi motti diventano contenuti condivisibili online, mentre in giro per un'Italia purtroppo troppo simile a quella reale, il duce si ringalluzzisce, sulle note di Giuseppe Verdi e Toto Cutugno, niente di meno. Cavalca le "diavolerie moderne" che pure detesta, e incontra gente che "non ha mai votato" eppure si lamenta di chi la governa, gente che vorrebbe una cacofonica "dittatura libera" e ha il livello culturale di un'oca neanche delle più giulive e la memoria della nonna della suddetta oca affetta da demenza senile. Diciamo che l'italiano medio non ci fa una gran bella figura, e che viene palesato il razzista, qualunquista, populista, tuttofobo che c'è in lui. Il film, che tra l'altro è un remake, a mio giudizio avrebbe potuto sfruttare molto meglio il suo potenziale, ma tutto sommato si lascia guardare lo stesso.

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mercoledì 9 maggio 2018

Ferrantemania

La ragazza prodigio che verrà a suonare per AmiCaFest come special guest al Bellini parla correntemente sette lingue e l'anno prossimo intraprenderà contemporaneamente sia la carriera del DMA che quella del PhD, in altisonanti università americane... Pensavo, quando la dovrò presentare, bisognerà che trovi le parole giuste! Ad esempio, potrei dire che come nel libro di Menna si ipotizza come sarebbe stata la vita di Steve Jobs se fosse nato a Napoli, potrei dire che Clara (così si chiama la nostra amica geniale) è ciò che sarebbe stata Raffaella Cerullo se fosse nata a Philadelphia, da genitori non esattamente scarpari.

Ed eccoci arrivati al vero fulcro di questo post: la ferrantemania. Anche adesso che ho finalmente finito i quattro volumi della serie L'amica geniale, non riesco a spiegare bene che cosa c’è di speciale in essi. Non ci riesco ma posso ipotizzare cosa in loro attrae me.

1) Dopo anni, mi sono riavvicinata a un certo italiano solido e corposo che mi mancava tanto. Non c’è nella lingua della narratrice (che, non dimentichiamo, è una scrittrice) nessun cedimento, nessuna parola messa lì perché fa scena, perché fa cool, perché fa colto, perché fa scalpore, perché fa antico: solamente una scrittura naturale, senza sforzi, senza mania di grandezza, senza velleità sperimentali, ma una lingua che serve a raccontare una storia, LA storia, delle psicologie, delle sensazioni, degli appetiti, delle paturnie nel modo più efficace possibile. Una scrittura memore, lucida, mobile e profonda, non dialettale ma che mi fa sentire in testa le tonalità della mia amica Isabella mentre leggo.

2) Psicologie e memoria, dicevo. Anche io sono stata bambina in un mondo in cui studiare era giusto, studiare troppo da cretini, studiare "sempre" assurdo; ragazzina in un mondo cattolico a convenienza, dove si porge o si schiaffeggia l'altra guancia a seconda del momento. Tuttavia, io le avevo dimenticate certe sensazioni dell'infanzia, dell'adolescenza e persino dell’età adulta. Ma l’autrice no. Bisogna avere una monumentale combinazione di spirito di osservazione e facoltà di ricordare, conoscenza della psiche altrui e della propria, capacità di raccontare tutto questo per accedere all'animo umano e ai pertugi più reconditi del nostro essere stati, per riuscire nell'impresa in cui Elena Greco/Ferrante eccelle.

3) A proposito di patrimonio collettivo delle emozioni, sembra che qui ci troviamo di fronte a un repertorio comune che confluisce in una sorta di prototipo dell'amica universale. Lina e Lenu' insieme riassumono caratteristiche di amiche che ognuno di noi ha o è, ed è esattamente questo che ce le fa amare ed odiare contemporaneamente e spasmodicamente. Siamo tutte un po' stronze, un po' opportuniste, un po' troie, capaci di enorme generosità e tenerezza, in grado di buttarsi nel fuoco per gli altri e di buttarci gli altri. La loro relazione ci riassume: io sono un po’ Elena, mia sorella è un po' Lina, Nadia ha un po’ di entrambe, Dalia, Silvia…

Chi non l'ha mai letto, avendo solo queste parziali indicazioni potrebbe scambiarlo per un testo emozionale che parla di amiche, ben scritto, ma niente di più. Ebbene, no: è anche un compendio di storia contemporanea, delle ideologie, della camorra, uno studio sociologico, un manuale di linguistica, di pratica letteraria. Un'enciclopedia narrativa, o meglio: un romanzo di quattro tomi dal taglio enciclopedico.

sabato 24 marzo 2018

Il papà geniale

Dovevo arrivare quasi alla metà del volume per catturarne il fascino.
L’ho richiesto in biblioteca, nella sua versione in lingua originale (ci mancherebbe), perché tutti parlano dell'autrice (?), perché è stato elogiato da Roberto Saviano, e infine, perché la mia personalissima amica geniale mi aveva detto che voleva prestarmelo, ché in qualche modo le ricordava me.
Non ho il tempo di leggere per leggere, da anni ormai. Ma non ho resistito.
Sulla metropolitana per la presentazione dell'ultimo libro di Jorge Ramos, nei pressi della fermata "Brickell", sono arrivata a pagina 132:
I confini del rione sbiadirono nel corso di quell’estate. Una mattina mio padre mi portò con sé. Volle che, con l’occasione dell’iscrizione al liceo, capissi bene che mezzi avrei dovuto prendere e che strade avrei dovuto fare per andare a ottobre nella nuova scuola. Era una bella, chiarissima giornata ventosa. Mi sentii amata, coccolata, all'affetto che avevo per lui si aggiunse presto un crescendo di ammirazione. Conosceva benissimo lo spazio enorme della città, sapeva dove prendere la metropolitana o un tram o un autobus. [...] Passammo insieme l’intera giornata, l’unica della nostra vita, altre non me ne ricordo. Si dedicò molto a me, come se volesse trasmettermi in poche ore tutto quello che di utile aveva imparato nel corso della sua esistenza. Mi mostrò piazza Garibaldi e la stazione che stavano costruendo [...]. Mi portò per corso Garibaldi, fino all'edificio che sarebbe stata la mia scuola. Traffico in segreteria con estrema bonomia, aveva il dono di riuscire simpatico, dono che nel rione e in casa teneva nascosto. Si vantò della mia straordinaria pagella con un bidello di cui, scopri lì per lì, conosceva bene il compare di fazzoletto. [...] Fui sopraffatta dai no mi, dal rumore del traffico, dalle voci, dai colori, dall'aria di festa che c’era in giro, dallo sforzo di tenere tutto a mente per poi parlarne con Fila, dall'abilità con cui lui chiacchierava col pizzaiolo da cui mi aveva comprato una pizza bollente con la ricotta, col fruttivendolo da cui mi aveva comprato una percoca molto gialla.
Perché ci piacciono i romanzi? Se siamo capaci di carpire la struttura, se abbiamo nozioni di narratologia, spesso è la mano d'opera dello scrittore ciò che attira la nostra attenzione, che fa la differenza, a scapito, a volte, di uno sguardo più "ignorante" che invece giova al mero piacere della lettura. Molto più in generale, un'opera narrativa ci attrae nella misura in cui ci possiamo - in qualche modo, anche deformato - specchiare nel suo interno.
Ecco: mi sono specchiata in questo paio di pagine. Ho risentito odori e rumori, rivisto colori di una Catania estiva, estranea ed arcigna, che mi si apriva dinnanzi e che mio papà tentava di rendermi familiare, mostrandomi il percorso del 431 rosso che da via D'Annunzio mi avrebbe portata tutte le mattine ai Benedettini dall'autunno 2001.
Per mesi e mesi mi sarei poi svegliata alle 6 del mattino per essere puntuale alla lezione di Letteratura Italiana tenuta da Nigro alle 8, senza sapere che c'erano diverse alternative più brevi e comode, perché la città nuova mi atterriva e non avevo nessuna voglia di indagare, di scoprire cose diverse da quelle che quel giorno mio padre tanto amorevolmente mi aveva insegnato: il panificio, il fruttivendolo, il supermercato, la segreteria... il suo sapere.
Quello è stato il mio primo passo verso l’indipendenza, verso i miei “papà mi fai questo?” solo per convenienza e non per incapacità. Poi ho iniziato io a spiegare cose a lui, e lui si è dimostrato un ottimo apprendista, curioso, paziente e fiducioso.
“Tu sai quello che devi fare”: è stata la frase più bella che mi abbia detto. Finora.
Tra pochi giorni me lo porto in giro per Miami, gliela rendo meno ostile di quanto pensi questa città, per ringraziarlo di avermi mostrato il percorso del 431 rosso con il riuscitissimo intento (il più difficile ed altruistico per un genitore) di aprirmi la porta della mia cameretta grammichelese, dove avevo studiato latino tutta l'estate, verso il mondo.

venerdì 23 marzo 2018

Maledetta primavera: una recensione di parte

L’apnea che ha preceduto l’applauso si è rotta in un pianto silenzioso, nello sciogliersi della tensione emotiva accumulata per più di un’ora, dal primo “buona notte”.

Dolente, sentita, faticosa come il viaggio inconcludente che racconta, come lo spegnimento di una vita che si vede prossimo eppure sembra inarrivabile. Così è stata la Winterreise eseguita dal basso Dario Russo e dal pianista Luca Cubisino, entrambi siciliani, alla Steinway Gallery di Austin lo scorso venerdì.

Nella loro esecuzione il freddo lo senti. E non è l'aria condizionata delle hall americane. Il ciclo di Schubert-Müller attraversa gli stati fisici della materia acqua pur conservando il sogno primaverile, dove l'unico fuoco non può essere che fatuo ed i soli sono altri. Una pena incontenibile, perenne (fatta di oggetti e metafore, animali e vedute adamantine) che questi due fini interpreti hanno fatto crescere negli animi dei fortunati ascoltatori.

Come il vecchio il cui organetto mai tace, Dario e Luca hanno narrato questa storia con disperata eppure delicatissima insistenza, attraverso il suono di un pianoforte vicino alla voce umana per i suoi colori, che si è fatto paesaggio e personaggio secondo le circostanze, ed una voce imponente e straniata, vinta dal fardello del significato che doveva trasportare.

Nella calda primavera texana, mai gelo fu più adatto a scaldare i sensi. Grazie ragazzi!