sabato 24 marzo 2018

Il papà geniale

Dovevo arrivare quasi alla metà del volume per catturarne il fascino.
L’ho richiesto in biblioteca, nella sua versione in lingua originale (ci mancherebbe), perché tutti parlano dell'autrice (?), perché è stato elogiato da Roberto Saviano, e infine, perché la mia personalissima amica geniale mi aveva detto che voleva prestarmelo, ché in qualche modo le ricordava me.
Non ho il tempo di leggere per leggere, da anni ormai. Ma non ho resistito.
Sulla metropolitana per la presentazione dell'ultimo libro di Jorge Ramos, nei pressi della fermata "Brickell", sono arrivata a pagina 132:
I confini del rione sbiadirono nel corso di quell’estate. Una mattina mio padre mi portò con sé. Volle che, con l’occasione dell’iscrizione al liceo, capissi bene che mezzi avrei dovuto prendere e che strade avrei dovuto fare per andare a ottobre nella nuova scuola. Era una bella, chiarissima giornata ventosa. Mi sentii amata, coccolata, all'affetto che avevo per lui si aggiunse presto un crescendo di ammirazione. Conosceva benissimo lo spazio enorme della città, sapeva dove prendere la metropolitana o un tram o un autobus. [...] Passammo insieme l’intera giornata, l’unica della nostra vita, altre non me ne ricordo. Si dedicò molto a me, come se volesse trasmettermi in poche ore tutto quello che di utile aveva imparato nel corso della sua esistenza. Mi mostrò piazza Garibaldi e la stazione che stavano costruendo [...]. Mi portò per corso Garibaldi, fino all'edificio che sarebbe stata la mia scuola. Traffico in segreteria con estrema bonomia, aveva il dono di riuscire simpatico, dono che nel rione e in casa teneva nascosto. Si vantò della mia straordinaria pagella con un bidello di cui, scopri lì per lì, conosceva bene il compare di fazzoletto. [...] Fui sopraffatta dai no mi, dal rumore del traffico, dalle voci, dai colori, dall'aria di festa che c’era in giro, dallo sforzo di tenere tutto a mente per poi parlarne con Fila, dall'abilità con cui lui chiacchierava col pizzaiolo da cui mi aveva comprato una pizza bollente con la ricotta, col fruttivendolo da cui mi aveva comprato una percoca molto gialla.
Perché ci piacciono i romanzi? Se siamo capaci di carpire la struttura, se abbiamo nozioni di narratologia, spesso è la mano d'opera dello scrittore ciò che attira la nostra attenzione, che fa la differenza, a scapito, a volte, di uno sguardo più "ignorante" che invece giova al mero piacere della lettura. Molto più in generale, un'opera narrativa ci attrae nella misura in cui ci possiamo - in qualche modo, anche deformato - specchiare nel suo interno.
Ecco: mi sono specchiata in questo paio di pagine. Ho risentito odori e rumori, rivisto colori di una Catania estiva, estranea ed arcigna, che mi si apriva dinnanzi e che mio papà tentava di rendermi familiare, mostrandomi il percorso del 431 rosso che da via D'Annunzio mi avrebbe portata tutte le mattine ai Benedettini dall'autunno 2001.
Per mesi e mesi mi sarei poi svegliata alle 6 del mattino per essere puntuale alla lezione di Letteratura Italiana tenuta da Nigro alle 8, senza sapere che c'erano diverse alternative più brevi e comode, perché la città nuova mi atterriva e non avevo nessuna voglia di indagare, di scoprire cose diverse da quelle che quel giorno mio padre tanto amorevolmente mi aveva insegnato: il panificio, il fruttivendolo, il supermercato, la segreteria... il suo sapere.
Quello è stato il mio primo passo verso l’indipendenza, verso i miei “papà mi fai questo?” solo per convenienza e non per incapacità. Poi ho iniziato io a spiegare cose a lui, e lui si è dimostrato un ottimo apprendista, curioso, paziente e fiducioso.
“Tu sai quello che devi fare”: è stata la frase più bella che mi abbia detto. Finora.
Tra pochi giorni me lo porto in giro per Miami, gliela rendo meno ostile di quanto pensi questa città, per ringraziarlo di avermi mostrato il percorso del 431 rosso con il riuscitissimo intento (il più difficile ed altruistico per un genitore) di aprirmi la porta della mia cameretta grammichelese, dove avevo studiato latino tutta l'estate, verso il mondo.

venerdì 23 marzo 2018

Maledetta primavera: una recensione di parte

L’apnea che ha preceduto l’applauso si è rotta in un pianto silenzioso, nello sciogliersi della tensione emotiva accumulata per più di un’ora, dal primo “buona notte”.

Dolente, sentita, faticosa come il viaggio inconcludente che racconta, come lo spegnimento di una vita che si vede prossimo eppure sembra inarrivabile. Così è stata la Winterreise eseguita dal basso Dario Russo e dal pianista Luca Cubisino, entrambi siciliani, alla Steinway Gallery di Austin lo scorso venerdì.

Nella loro esecuzione il freddo lo senti. E non è l'aria condizionata delle hall americane. Il ciclo di Schubert-Müller attraversa gli stati fisici della materia acqua pur conservando il sogno primaverile, dove l'unico fuoco non può essere che fatuo ed i soli sono altri. Una pena incontenibile, perenne (fatta di oggetti e metafore, animali e vedute adamantine) che questi due fini interpreti hanno fatto crescere negli animi dei fortunati ascoltatori.

Come il vecchio il cui organetto mai tace, Dario e Luca hanno narrato questa storia con disperata eppure delicatissima insistenza, attraverso il suono di un pianoforte vicino alla voce umana per i suoi colori, che si è fatto paesaggio e personaggio secondo le circostanze, ed una voce imponente e straniata, vinta dal fardello del significato che doveva trasportare.

Nella calda primavera texana, mai gelo fu più adatto a scaldare i sensi. Grazie ragazzi!